La forza della pratica del 50 e 50 è proprio nel riconoscimento del dat innegabile che il mondo è fatto così. di susanna camusso


Per Rassegna Sindacale Speciale 8 marzo 2008
di Susanna Camusso

Proposta convincente
La forza della pratica del 50 e 50 è proprio nel riconoscimento del dat innegabile che il mondo è fatto così.

Nel Centenario dell’8 Marzo può essere un’idea tornare ad interrogarsi sui temi della rappresentanza delle donne, dando valore ai molti studi che in questi ultimi anni stanno facendo giustizia del silenzio sul ruolo delle donne nella Resistenza, e sulla presenza delle donne nel lavoro, che non è, o almeno non è soltanto - come troppo spesso si racconta - figlia della sostituzione del lavoro maschile durante le due guerre.
E’ utile ripercorrere questo cammino perché la nostra storia è costellata di forme organizzate delle donne; certo, il separatismo non aveva ancora fatto la sua comparsa, ma l’esistenza di forme proprie di organizzazione, di elaborazione, di mobilitazione e di lotta delle donne si perde nel tempo.
E nel tempo si perde anche la “coerenza” delle grandi organizzazioni nel riconoscere queste forme come parte essenziale della rappresentanza generale. Come ignorare i “pregiudizi” che hanno caratterizzato le forme della politica, anche sindacale, per i quali, mentre da un lato si prevedevano gli uffici lavoratrici e le commissioni femminili, dall’altro si continuavano a costruire politiche segnate dall’idea che il vero ruolo delle donne fosse quello di angeli custodi della famiglia, che le donne “deprezzassero” il lavoro maschile.
Eppure questa nostra recente storia non solo produce forti lotte ed iniziative per la parità (per quella salariale troviamo rivendicazioni anche alla fine dell’800, oltre che negli scioperi del ’43 –‘44), ma quelle lotte si intrecciano fortemente con le lotte per i diritti civili e le conquiste che cambiano il volto del nostro Paese negli anni ’70.
Sarà un caso che le grandi lotte autorganizzate del movimento delle donne degli anni ’70 - quello che ricompone tante forme diverse, che assume il femminismo come orizzonte e ricolloca storicamente l’emancipazionismo - si traducano sia nella grande rivoluzione del “privato è politico” che nel riconoscimento della cittadinanza?
La libertà e la differenza, l’uguaglianza dei diritti nella diversità: libere ed autodeterminate.
Tutto questo cambia la “gerarchia” dei diritti? Sicuramente sì: la parità sul lavoro non è sufficiente, non cambia alle radici la società; e i diritti sociali, che sono fondamentali per uscire dal ruolo esclusivamente riproduttivo e dalle mura di casa, divengono agibili e passano attraverso l’affermazione dei diritti civili, di un’idea della donna come persona a pieno titolo, non come “minore” da tutelare.
Una vera e propria rivoluzione che si è compiuta mettendo in discussione i ruoli, confliggendo sulla separazione del pubblico dal privato, negando l’impermeabilità delle due sfere, dando alle relazioni il senso che hanno e provando ad agirle alla pari ma tra diversi.
Affermando sé stesse, la conoscenza di sé, anche la propria completezza nei luoghi di lavoro: basti pensare a quanto hanno voluto dire, per esempio, le battaglie sulla salute.
Eppure quello delle donne, ovunque si organizzi, è un movimento carsico anche quando, allora come ora, apre la “questione maschile”, ovvero pone a ciascuno la necessità - tutt’ora negata - di ripensare il proprio ruolo sulla scena pubblica, oltre che privata. Sebbene il monopolio quanto meno si incrini, il movimento elabori, rifletta, esso non appare protagonista; la politica ufficiale, le istituzioni non traducono, le donne non vedono quei luoghi come sedi nelle quali poter continuare ad affermare le proprie politiche.
Pur nelle diversità, procede in parallelo anche la storia di un sindacato, meglio di una CGIL, segnata in profondità e ancor prima della politica, dalla presenza di genere: da fiore all’occhiello a presenza diffusa, da generosa intuizione a forzatura del continuismo dei gruppi dirigenti, da politica delle quote faticosamente raggiunte allargando gli organismi, a norma antidiscriminatoria.
Avrà tutto ciò a che fare con una quotidianità sindacale che obbliga, molto più di quella della politica, dei partiti e delle istituzioni, a misurarsi con la rappresentanza?
Provare a leggerla così può essere utile anche per interpretare un altro aspetto della storia del movimento delle donne, dei tanti femminismi: quel pensiero che nel femminismo ha prevalso, di distanza dai partiti e dalle istituzioni, di sfiducia, di delega alla sinistra, agli altri movimenti.
E tuttavia la storia dei movimenti e della politica non si è fatta attraversare da quella delega: non l’ha fatto il movimento studentesco, con la figura dell’angelo del ciclostile, né quello più recente “no global”, che non riesce ad afferrare e a riconoscere la differenza.
Semplificando, l’idea di una politica per sé che è politica di libertà, una libertà femminile che rappresenta una migliore qualità del vivere per tutte e tutti, uomini e donne, contiene però un profondo rischio: che continuino ad essere gli uomini a legiferare, a scegliere, a programmare sui nostri corpi, sulle nostre vite, sui nostri ruoli.
Il rischio che, nella sostanza, si torni alla separazione tra pubblico e privato, e anziché rimettere tra uomini e donne la politica, il progetto, l’idea, si lasci il posto al gossip, alla spettacolarizzazione.
In altre parole, che non si riesca a fornire una nuova lettura teorica dell’eguaglianza e a dare senso a politiche che riducano le diseguaglianze; politiche che non possono essere genericamente egualitarie, ma che non possono nemmeno riprodurre il recinto delle tutele del mondo debole.
Di questa idea di debolezza bisogna liberarsi, ed è in ragione di questo che va cercata una nuova chiave di lettura. Non si può “mendicare” uno spazio, bisogna leggere la realtà e riproporre con autorevole determinazione il tema della rappresentanza come specchio del mondo.
Qui sta la forza della pratica del 50 e 50: è il riconoscimento del dato innegabile che il mondo è fatto così; è il riconoscimento e la consapevolezza che tutt* abbiamo rappresentanza generale e che tutt* abbiamo però anche una rappresentanza parziale.
Le donne hanno pensato, pensano spesso – proprio a partire da questa consapevolezza di parzialità - che già rappresentare il proprio genere non sia dato né scontato solo in virtù della capacità di prendere parola pubblica; gli uomini, al contrario, si sono sempre pensati come privi del dubbio, capaci per definizione di rappresentare il tutto.
Forse è su questo che occorre compiere una “rivoluzione copernicana”, e la CGIL, almeno partendo da sé e rispondendo della propria storia e della propria realtà, può farlo, contribuendo in modo autonomo e originale a ripensare una “polis” non rivolta e contenuta dentro un’idea angusta di famiglia, ma in grado di riconoscere pieni diritti di cittadinanza a tutte e a tutti, uomini e donne, nella stessa misura.

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