Block Notes n. 5, maggio 2013

 
Dipartimento Welfare e nuovi diritti della Cgil Lombardia
A cura di M. Oliviero, E. Naldi, G. Roversi e M. Vespa

In questo numero:
1. Dalla stampa di settore
Paletti al test del Psa
Rapporto Oasi 2012. Bisogni di salute a rischio
Rapporto Oasi 2012. Cronicità, modelli a confronto
Oasi 2012. Sperimentazioni, guida all’uso
Dati Fnom. Specialisti, chi sale e chi scende
Relazione sullo stato sanitario del Paese 2011: Italia in salute, con troppi vizi
Oasi 2012. Socio-sanitario senza regia
C’è bocconiano e bocconiano
Salute, bene speciale per un mercato speciale
Istat: Italia fanalino di coda della spesa nell’Ue
La revisione del Dpcm sui Lea
Corte dei conti: troppi costi e gestione senza controlli
Inghilterra banco di prova dell’addio all’universalismo
Le linee guida delle Regioni. Come si nominano i primari
Rapporto Agenas. Cure palliative al test di qualità
Sicurezza sul lavoro. Bilancio delle attività di prevenzione nel triennio 2009-2011
Sdo 2011. Ospedali, ricoveri in caduta
Aziende ospedaliere. L’eccellenza non abita al Sud

1. Dalla stampa di settore
 Da “Il Sole 24ore Sanità” n. 41, del 6-12 novembre 2012
Paletti al test del Psa.
Dagli anni ‘80 il test del Psa è entrato nella pratica clinica di tutti i Paesi; pur non essendo un test specifico per il cancro alla prostata, è facile da eseguire e rappresenta ormai anche in Italia una sorta di screening spontaneo. Il cancro alla prostata rimane negli Usa (con oltre 28.000 morti l’anno) ed in Italia (con 9.000) la seconda causa di morte per cancro dopo il tumore del polmone. L’anno scorso, a seguito di una pubblicazione scientifica statunitense che sottolineava come l’evidenza scientifica sconsigliasse lo screening per il cancro alla prostata, scatenò l’ostracismo verso il test del Psa. Uno studio europeo recente su 11 anni di follow up, relativo a 182.10 uomini tra 50 e 74 anni ha dimostrato che lo screening con Psa riduce significativamente la mortalità specifica per cancro prostatico, con un rischio relativo di 0,79. I suggerimenti ricavabili dalla recente letteratura sono i seguenti: 1) va potenziata la ricerca su nuovi biomarcatori, soprattutto basati su alterazioni genetiche, che possano sostituire il Psa come test di screening; 2) è consigliabile effettuare il Psa negli uomini con aspettativa di vita superiore a 10 anni, evitandolo in uomini molto anziani o affetti da importanti comorbidità; 3) nei casi a basso rischio è importante valutare la possibilità di effettuare una sorveglianza attiva, rispetto ad una immediata terapia radicale. In conclusione, non è giusto demonizzare il test, ma dobbiamo evitare di utilizzare il Psa come screening generalizzato.

 Da “Il Sole 24ore Sanità” n. 42, del 13-19 novembre 2012
Rapporto Oasi 2012. Bisogni di salute a rischio.
Le iniziative di spending review hanno ulteriormente focalizzato l’attenzione sulla necessità di contenere la spesa sanitaria. Il Rapporto Oasi evidenzia alcuni aspetti sottovalutati. 1) IL Ssn è sufficientemente parsimonioso. La spesa, con tassi di crescita molto bassi e disavanzi contenuti, è sistematicamente inferiore alle medie europee. Gli ulteriori sacrifici richiesti alla Sanità pubblica trovano origine altrove: nel debito pubblico e nell’incapacità del sistema economico di crescere. 2) Le risorse per la sanità sono sempre più insufficienti, con il rischio di intaccare una copertura pubblica già incompleta (gli utenti pagano il 55% delle prestazioni specialistiche, il 92% di quelle odontoiatriche e il 69% di quelle ginecologiche). 3) La politica dei tagli lineari sui singoli fattori produttivi non tiene conto della differenziazione interregionale e del fatto che in molte regioni i margini per un ulteriore efficientamento del sistema sono molto limitati. 4) L’unico modo per ottenere risultati apprezzabili sul piano dell’efficienza, ma anche della qualità e dell’appropriatezza diventa la ricerca di innovazioni di “prodotto” e di “processo”, che garantiscano una maggiore integrazione di risorse, degli interventi, delle professionalità e delle unità organizzative, come l’introduzione della logica della “presa in carico” del paziente cronico, la riorganizzazione degli ospedali per intensità di cura, lo sviluppo di reti interaziendali per patologia, la creazione di forme di associazionismo tra Mmg, infermieri e specialisti. 5) Questo processo di innovazione non può essere governato in modo centralistico; è necessario un rafforzamento delle responsabilità aziendali, sostenuto dal livello centrale e regionale. 6) È in discussione la copertura dei Lea, potrebbe essere necessario chiarire in modo esplicito quali Lea il Ssn potrà effettivamente garantire su base universalistica, per evitare il rischio che si estendano forme di razionamento implicito, attraverso l’aumento della compartecipazione e lunghi tempi di attesa. Sarebbe inoltre opportuno attivare risorse aggiuntive (attività a pagamento, assistenza sociosanitaria, fondi integrativi).

 Da “Il Sole 24ore Sanità” n. 43, del 20-26 novembre 2012
Rapporto Oasi 2012. Cronicità, modelli a confronto: Lombardia, Emilia Romagna e Toscana.
La tendenza epidemiologica più marcata nei Paesi occidentali è l’aumento di prevalenza delle malattie croniche, strettamente legato all’invecchiamento della popolazione. Il 36% degli italiani, secondo l’Istat, dichiara una malattia cronica; tra le principali: l’artrite (17%), l’ipertensione (16%), le Bpco (6,1%), il diabete (4,9%). In alcune Regioni i costi di cura delle malattie croniche rappresentano il 70% della spesa sanitaria. Se il valore medio annuale delle prestazioni extraospedaliere per pazienti non cronici è di 278 euro, per gli ipertesi sale a 626, per i diabetici a 846 e per i pazienti affetti da scompenso a 980. Di fronte alla sfida della cronicità, diverse Regioni stanno riorganizzando l’assistenza territoriale, con modalità peculiari. Il Rapporto Oasi presenta i risultati di una ricerca che ha analizzato le esperienze realizzate in Emilia Romagna, Lombardia e Toscana. 1) La Lombardia ha avviato la sperimentazione dei Creg (Chronic Related Groups) in 5 Asl, su 4 grandi aree di patologie (Bpco, diabete, nefropatie e malattie cardiache), con la presa in carico globale del paziente, remunerata attraverso una tariffa, collegata a raggruppamenti omogenei isorisorse di patologie, in analogia con i Drg ospedalieri. Il gestore del Creg è una cooperativa di Mmg, che stipula accordi con società di servizi per la gestione di servizi di telemedicina, recall, ecc… e con erogatori di prestazioni specialistiche. Il gestore propone un piano di assistenza individuale personalizzato a ogni paziente cronico segnalato dall’Asl. La scarsa adesione dei Mmg alla sperimentazione (15-20%) ha spinto la Regione ad aprire nuovi bandi per ampliare il numero dei cronici da assistere. 2) In Emilia Romagna i Nuclei di cure primarie sono la cellula organizzativa del Dipartimento di cure primarie della Ausl, con l’obiettivo di integrare tutte le professionalità dell’assistenza territoriale (Mmg, specialisti, infermieri, ostetriche, assistenti sociali, ecc…). In prospettiva, le sedi del NCP sono le Case della Salute (42 a fine 2011), filtro e Punto unico di accesso per l’assistenza a bassa intensità/complessità, dove si concentrano gran parte dei servizi offerti ai pazienti cronici: punto accoglienza, Adi, monitoraggi attivi, Teleconsulto, ambulatori per patologia, formazione. La remunerazione dei professionisti avviene attraverso la contrattazione collettiva regionale e locale. 3) In Toscana le aggregazioni funzionali per la cura delle cronicità sono i Moduli, aggregazioni di Mmg, Mca, specialisti, infermieri, Oss, che operano in team su specifiche patologie (diabete, scompenso, Bpco, ipertensione, ictus). È una modalità di presa in carico capillare (sono stati attivati Modelli in tutti i distretti), che pone particolare attenzione all’analisi dei bisogni e delle risorse familiari o sociali ed alla formazione dei pazienti e dei care giver ed è il presupposto per la creazione del Chronic care model (a gennaio 2012 oltre il 30% dei Mmg era coinvolto nei Ccm). La remunerazione dei professionisti avviene attraverso accordi collettivi. In conclusione, i tre modelli regionali studiati sono caratterizzati da meccanismi operativi simili: tutti potenzialmente possono evolvere verso le Unità complesse di cure primarie previste dal decreto Balduzzi.

 Da “Il Sole 24ore Sanità” n. 44, del 27 novembre - 3 dicembre 2012
Oasi 2012. Sperimentazioni, guida all’uso.
Dalla rilevazione nazionale Cergas-Ministero sulle sperimentazioni gestionali in sanità effettuate nel periodo 1995-2011, emergono tre modelli, in cui la variabile chiave è rappresentata dal contesto regionale, riferibile sia alle caratteristiche del sistema sanitario regionale (gestione ospedaliera integrata o gestione separata), sia all’esistenza di indirizzi regionali a supporto delle sperimentazioni gestionali. I tre modelli sono: 1) Modello imprenditoriale, presente in Regioni con Ssr integrato; obiettivi delle sperimentazioni sono: economie di scala, flessibilità nell’acquisto di fattori produttivi, la possibilità di internalizzare competenze manageriali e medico-cliniche del privato e di aumentare il fatturato. I rischi sono: norme che limitano la flessibilità dell’assetto societario, insostenibilità dei volumi di produzione, incertezza nella messa a regime della struttura. Le risposte possibili sono il rafforzamento della collaborazione con altre Asl o con altre strutture. 2) Modello integrato a supporto, presente in Regioni con Ssr integrato, che abbiano adottato politiche di integrazione delle SG nell’offerta pubblica; i vantaggi sono le economie di scala e di specializzazione, i rischi sono legati ad una possibile modifica del sistema di remunerazione che potrebbe compromettere il vantaggio competitivo ed il mantenimento dell’interesse del privato come partner di lungo periodo. Le risposte possono essere: lo sviluppo di una logica di rete (hub and spoke), in cui la sperimentazione funzioni da hub e la ridefinizione dell’assetto societario, conferendo maggiore forza al pubblico. 3) Modello associativo, presente in Regioni con sistemi a gestione separata, dove il rapporto erogatori-committenti sia già prevalentemente contrattuale. Il vantaggio è nella flessibilità nell’acquisto di fattori produttivi, economie di specializzazione e nella differenziazione delle fonti finanziarie. I rischi sono: l’insostenibilità dei volumi di produzione per l’ente pubblico, soprattutto in ambiti a domanda crescente come la non autosufficienza e la riabilitazione. In sintesi lo studio dimostra come l’eterogeneità iniziale delle sperimentazioni consenta lo sviluppo di modelli gestionali personalizzati sui modelli regionali di Ssr, che consentono l’utilizzo di risorse non solo pubbliche.

 Da “Il Sole 24ore Sanità” n. 46, dell’11-17 dicembre 2012
Dati Fnom. Specialisti, chi sale e chi scende.
Dai dati degli iscritti alla Fnom risulta che i medici specialisti sono sempre più “tecnici” ed in pieno ricambio generazionale: diminuiscono i chirurghi generali e aumentano quelli maxillo-facciali, i chirurghi plastici, i cardiochirurghi ed i neurochirurghi e la maggior parte degli specialisti è concentrata nelle fasce di età mature: più della metà sono tra i 54 e 64 anni ed il 23% sono over 65. Dal 2000 al 2012 i maschi sono diminuiti di 10.900 unità, mentre le donne sono aumentate di circa 11.000. i giovani scelgono specialità come la chirurgia estetica, quelle che danno uno sbocco occupazionale immediato, o quelle che riducono i rischi legati alla medicina difensiva. Negli ultimi 12 anni vi è stato un aumento di due categorie di specialità: quelle in cui vi è stata una massiccia perdita di medici per raggiunti limiti di età e le “nuove” specializzazioni. Nella radioterapia su 1.610 specialisti ben 1.012 sono over 69 anni e per questo vi è stato un incremento del 36,4% dei nuovi specialisti. La genetica medica e la chirurgia maxillofacciale sono l’emblema delle nuove specializzazioni: la prima è aumentata del 17,5% e la seconda del 14,3%. Le donne crescono in tutte le specialità, ma in alcune, come l’anestesia e rianimazione, la psichiatria, la radiodiagnostica e la medicina interna vi è un vero boom.

 Da “Il Sole 24ore Sanità” n. 47, del 18-24 dicembre 2012
Relazione sullo stato sanitario del Paese 2011. Italia in salute, con troppi vizi.
Gli italiani sono in buona salute e il Ssn ha una buona capacità di contrastare le malattie, vi sono però alcuni aspetti problematici nella prevenzione, soprattutto negli stili di vita. Il 32% degli italiani adulti sono in sovrappeso e l’11% obesi, un terzo della popolazione 18-69 anni è sedentaria. Le prime tre cause di morte sono: le malattie del sistema circolatorio (38,2% dei decessi), i tumori (29,7%) e le malattie respiratorie (6,8%). Pesa il consumo di fumo ed alcol: i consumatori di alcol considerati a rischio sono 8,6 milioni nel 2010; di cui 1,3 milioni di giovani tra 11 e 25 anni e 3 milioni di anziani. I pazienti presi in carico dai servizi per consumo di eroina, cocaina e cannabis sono 177.227, i malati di ludopatie sono circa 300mila, su un totale di 700mila giocatori di azzardo. Dal punto di vista dell’offerta, nel 2011 la dotazione di p.l. per acuti è scesa da 3,5 a 3,3 per mille abitanti (da 211.936 a 202.736), con un leggero incremento per la post-acuzie (0,6 x mille). Il tasso di ospedalizzazione per acuti è sceso del 10%.

 Da “Il Sole 24ore Sanità” n. 48-49, del 25 dicembre 2012 – 14 gennaio 2013
Oasi 2012. Socio-sanitario senza regia.
Gli interventi sociosanitari riguardano le aree materno infantile, anziani e non autosufficienti con patologie cronico-degenerative, disabilità, dipendenze, patologie psichiatriche, Hiv e terminali. Secondo i dati del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, le risorse pubbliche impiegate per l’assistenza sociosanitaria per invalidità e non autosufficienza ammonterebbero a circa 47 mld. di euro, di cui 11,6 mld. provenienti dai fondi sanitari regionali, quota parte del FSN per gli interventi sociosanitari, 34,4 mld. finanziano indennità, pensioni, assegni e rendite per invalidità e inabilità, 1 mld. rappresenta deduzioni e detrazioni per spese mediche sopportate da soggetti invalidi o non autosufficienti. Agli 11,6 mld. di fondi regionali si aggiungono altri 2 mld. per l’area materno infantile e per le dipendenze, che portano il totale delle risorse per il sociosanitario a 49 mld. (non comprensivi della spesa sociale dei comuni, che ammonta secondo l’Istat a 7 mld., che finanzia gli interventi sociosanitari). Sul totale di 49 mld. ben 36 sono costituiti da trasferimenti monetari, mentre i servizi diretti garantiti dal Ssn hanno un valore di 13 mld. I produttori tendono a specializzarsi in singoli segmenti di disagio (anziani, minori, salute mentale,…) e singole fasi di assistenza (intensiva, estensiva e lungo assistenza,, oppure domiciliare, centro diurno, residenzialità), con una frammentazione che impedisce l’integrazione dei percorsi assistenziali e la ricomposizione degli interventi. Vi è inoltre una forte incidenza dell’informal care sul totale delle cure: le 774.000 badanti stimate da Irs, di cui 700.000 straniere, fornirebbero assistenza ad almeno il 6,6% degli anziani non autosufficienti, per un costo a carico delle famiglie di oltre 9,35 mld. di euro, quasi un terzo in più della spesa sociale dei comuni. La crescita dimensionale dei produttori favorirebbe il completamento delle fasi assistenziali e delle tipologie di persone seguite, garantendo economie di scala e offrendo la possibilità di offrire percorsi assistenziali integrati e completi. Occorre inoltre risolvere la contraddizione tra la previsione costituzionale, che attribuisce le competenze alle Regioni e la collocazione delle risorse prevalentemente a livello centrale, presso l’Inps. Infine, è necessario interrogarsi su quale assetto istituzionale possa favorire localmente l’integrazione fra sanità, sociosanitario e socio assistenziale. È necessario innanzitutto ricomporre la frattura Regioni-Inps, individuando un unico attore; nel contempo, anche il settore socio-assistenziale dovrebbe essere gestito a livello distrettuale, attraverso aziende intercomunali.

 Da “Il Sole 24ore Sanità” n. 1, del 15-21 gennaio 2013
C’è bocconiano e bocconiano. di Elio Borgonovi
Alcuni colleghi (Giavazzi e Alesina, Corriere della Sera del 27.12.2012) hanno sostenuto la tesi che nell’ambito della politica di riduzione della spesa pubblica il sistema di tutela pubblico dovrebbe coprire solo i “non ricchi”. Il tema della ridefinizione dei confini tra Stato e privato è cruciale e deve essere rispettata la posizione di chi ritiene e che si debba ridurre l’intervento dello Stato per ampliare lo spazio del privato, inteso come spazio per il mercato, dove operano imprese for profit, istituzioni private non profit e altre forme di organizzazione della società. Tuttavia, occorre mettere in guardia da una forma di populismo, che sostiene ricette semplici per problemi complessi. In Bocconi è presente una cultura diversa da quella espressa dai colleghi. In primo luogo, si ricorda che la copertura universale del modello di welfare beveredgiano non significa garantire tutto a tutti, ma garantire a tutti livelli di servizi considerati espressivi di un certo livello di civiltà, in cui certi bisogni sono considerati diritti della persona in quanto tale. In secondo luogo, la copertura universale ha anche una ragione economica sostanziale, in quanto persegue l’obiettivo di evitare la moltiplicazione delle strutture dedicate alla tutela della salute. Escludere i ricchi dal Ssn significa creare due circuiti di finanziamento, ma inevitabilmente anche due circuiti di offerta (vedi Usa, Paesi del Centro e Sud America, Stati balcanici, ma anche India e Cina). La moltiplicazione delle strutture di offerta determina un aumento della spesa totale destinata alla salute nei Paesi ricchi (17,5% del Pil negli Usa) e, nei Paesi meno progrediti, un basso livello di assistenza non solo per le classi povere, ma anche per i ceti medi, che vengono schiacciati verso il basso. Non a caso la Cina, dopo aver introdotto una riforma sul modello del doppio circuito, sta ora guardando ai sistemi sanitari nazionali europei, che sembrano più sostenibili sul piano economico e della qualità dell’assistenza.

 Da “Il Sole 24ore Sanità” n. 2, del 22-28 gennaio 2013
Salute, bene speciale per un mercato speciale. Di Elio Borgonovi
L’Europa rappresenta circa l’8% della popolazione mondiale, produce il 25% della ricchezza ed ha una spesa per il welfare pari al 50% del totale mondiale. Sul welfare in questo difficile contesto storico vi sono diverse linee di pensiero. La prima sostiene che il welfare europeo non è più sostenibile, la seconda che il riequilibrio mondiale potrebbe avvenire attraverso un aumento della spesa per il welfare nei Paesi poveri. La terza linea considera il ruolo dell’intervento pubblico e quello del mercato; si può sostenere la necessità di dare più spazio al mercato, oppure di realizzare politiche pubbliche più efficaci, di razionalizzazione e recupero dell’efficienza dell’azione pubblica. La sanità è sicuramente un sistema nel quale il mercato è uno strumento da maneggiare con particolare attenzione, per diversi motivi: la domanda è condizionata dall’offerta in misura più rilevante di quanto non avvenga per ogni altro settore. Quando la domanda non è indipendente dall’offerta il rischio è che venga incrementata dalla capacità di offerta, invertendo il tipico rapporto fini-mezzi: non si dimensiona l’offerta sulla base dei bisogni reali, ma si spinge la domanda per consentire di raggiungere altri fini (profitti elevati per gli operatori privati). Anche il tipico meccanismo della concorrenza può essere facilmente distorto: se è plausibile che un aumento della concorrenza spinga i vari operatori, privati e pubblici, a ricercare più elevati livelli di efficienza, è anche possibile però che le strutture messe in concorrenza abbiano un comune interesse ad aumentare i volumi. Chi ritiene di risolvere il problema dell’eccessivo peso del welfare europeo tramite “massicce iniezioni” di mercato e di concorrenza potrebbe trovarsi in una situazione in cui il volume complessivo delle prestazioni e la spesa totale (pubblica e privata) aumentano. Chi ritiene necessario un “ripensamento profondo” del sistema di tutela della salute, più che seguire la logica dell’alternativa Stato-mercato, pubblico-privato, dovrebbe perseguire soluzioni di collaborazione- integrazione tra pubblico e privato, attraverso le quali esaltare gli aspetti positivi dei due sistemi.

 Da “Il Sole 24ore Sanità” n. 3, del 29 gennaio – 4 febbraio 2013
Istat: Italia fanalino di coda della spesa nell’Ue.
La spesa sanitaria pubblica italiana è stata nel 2011 di circa 112 miliardi, il 7,1% del Pil, pari a 1.842 euro annui per abitante, molto inferiore rispetto a quella di altri paesi europei. A parità di potere d’acquisto, a fronte dei circa 2.359 dollari per abitante spesi in Italia nel 2010, una somma di poco inferiore alla spesa della Finlandia (2.422 dollari) e di poco superiore alla Spagna (2.265 dollari), il Regno Unito spende quasi 2.857 dollari pro capite, mentre Francia e Germania superano i 3.000 dollari, con importi rispettivamente di 3.061 e 3.331 dollari. Il livello di spesa più alto si registra nei Paesi Bassi (4.050 dollari), quello più basso per la Polonia (995 dollari). A fare il confronto è l’Istat, nel suo rapporto “100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo”, che per Sanità e salute analizza otto indicatori. Nel 2010 la spesa sanitaria è stata di 1.853 euro per abitante: 1.850 euro al Nord, 1.930 al Centro e 1.812 al Sud. Nelle Regioni prevale la spesa per servizi sanitari forniti direttamente; si osserva, tuttavia, una quota più elevata di spesa per servizi in convenzione per Lombardia (43,8%), Campania e Lazio (41,5%) e Puglia (40,8%). In Italia, la spesa in convenzione sono soprattutto quella farmaceutica (26,4%), l’assistenza medica di base e specialistica (28,0%) e le prestazioni delle case di cura private (22,8%). Nel 2010, le famiglie italiane hanno contribuito con proprie risorse alla spesa sanitaria complessiva per il 19,5%, l’1,8% del Pil, in calo di oltre cinque punti percentuali rispetto al 2000. Il contributo delle famiglie alla spesa sanitaria totale è più basso nel Sud (15,8%) che nel Centro-Nord, dove si attesta al 21,3% con una punta del 23,3% nel Nord-Est. Il confronto europeo evidenzia che la quota di spesa sanitaria privata in Italia è del 20,4%, oltre il 3% più bassa rispetto a Francia, Germania e Austria. Il Paese con la spesa privata maggiore è la Grecia (oltre il 40%). Seguono Paesi Bassi, Slovacchia e Ungheria con oltre il 35%, mentre i contributi minori sono in Lussemburgo (16,0%) e Danimarca (14,9%).

 Da “Il Sole 24ore Sanità” n. 4, del 5-11 febbraio 2013
La revisione del Dpcm sui Lea.
Nella proposta di aggiornamento dei Lea predisposta dal ministro e tuttora in stand by, per la resistenza delle Regioni, sono comprese anche la ludopatia e l’analgesia epidurale, oltre a 110 nuove malattie rare e sei patologie croniche. A fronte di un incremento di spesa di 15-19 milioni, secondo il Ministero, la razionalizzazione di una serie di prestazioni di specialistica ambulatoriale (Tac e Rm) a forte rischio di inappropriatezza, porterebbe un risparmio di oltre 26,5 mil. La proposta prevede l’inserimento di 110 nuove patologie rare a carico del Ssn, da cui escono celiachia e sindrome di Down, inserite tra le cronicità. L’inserimento della ludopatia nei Lea era stato previsto dalla L. 189/2012, con la modifica della dizione relativa alle dipendenze. Nei nuovi Lea non si parla più di assistenza agli abusi di alcol e di sostanze stupefacenti, ma di assistenza alle persone con “dipendenze patologiche e comportamenti di abuso di sostanze”. Le persone con ludopatia, per ricevere le prestazioni di cui hanno bisogno, hanno diritto ad accedere ai servizi territoriali per le dipendenze già attivi nel Ssn, senza che questo comporti ulteriori oneri, dato che le Regioni non dovranno istituire servizi ad hoc. Le Regioni dovranno inoltre adottare misure per diffondere l’utilizzo dell’analgesia epidurale e peridurale in corso di travaglio e di parto vaginale, individuando nel loro territorio le strutture che effettueranno tali procedure e sviluppare programmi per diffonderne l’utilizzo.

 Da “Il Sole 24ore Sanità” n. 5, del 12-18 febbraio 2013
Corte dei conti: troppi costi e gestione senza controlli.
Dalla relazione presentata all’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei Conti emerge come il comparto della spesa sanitaria presenti molte criticità. L’eccessivo impegno finanziario nel settore può dipendere da vari fattori: da una irrazionale distribuzione delle risorse, dalla disattenzione dei pubblici amministratori, dalla moltiplicazione dei centri di spesa, dalla proliferazione delle strutture, talvolta inutili, e dalla mancanza di controllo sulla gestione. All’attenzione costante della Corte vi sono la cattiva gestione dei presidi sanitari (violazione dell’obbligo di esclusività; irregolarità nella realizzazione di opere o nell’acquisizione di beni e servizi; affidamento illecito di incarichi; illegittima assunzione di personale), gli sprechi (irregolarità nella prescrizione di farmaci), gli illeciti di carattere penale (dolosa emissione di ordini di pagamento per corrispettivi non dovuti; emissione di fatture per fittizie prestazioni sanitarie o farmaceutiche; inosservanza di disposizioni in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro), gli abusi nella conduzione di attività di prevenzione (un caso si è verificato nella campagna di screening per la diagnosi dei tumori femminili), le conseguenze di errori medici. La relazione spiega che nel 2012 il comparto sanitario è stato frequentemente oggetto dell’attività delle Sezioni giurisdizionali e degli uffici di procura, confermando la sua tendenza a essere un ambito “particolarmente esposto a fatti illeciti di varia natura”. L’anno giudiziario, secondo la relazione, si è concluso con 44 sentenze definitive, 223 delle Sezioni giurisdizionali di appello, per un importo complessivo di circa 5 milioni. Infine, la Corte ribadisce che quella sperimentata in questi anni dal settore sanitario rappresenta l’esperienza più avanzata e più completa di quello che dovrebbe essere un processo di revisione della spesa. Secondo la Corte è possibile accelerare il percorso di contenimento dei costi e di adeguamento delle strutture e in questa direzione si stanno già muovendo le amministrazioni territoriali e centrali impegnate nel monitoraggio sanitario. Ulteriori interventi non devono, tuttavia, indebolire un sistema di governance che si sta costruendo. Il meccanismo di responsabilizzazione, previsto dai Patti della salute, ha posto a carico delle collettività locali la copertura dei disavanzi derivanti da una spesa superiore ai livelli programmati. Lo sforzo richiesto in termini di ticket e/o incremento del prelievo fiscale (specie, ma non solo, nelle Regioni in squilibrio strutturale) è cresciuto nell’ultimo anno di quasi il 6%. Vi è quindi un problema di riduzione delle differenze a livello territoriale non giustificate, nella maggioranza dei casi, dalla diversa qualità del servizio offerto.

 Da “Il Sole 24ore Sanità” n. 6, del 19-25 febbraio 2013
Inghilterra banco di prova dell’addio all’universalismo.
La nuova riforma sanitaria, voluta dal Governo conservatore di Cameron,è diventata legge il 27 marzo 2012 ed è entrata in vigore dal 1° aprile 2013. La riforma cambia radicalmente il volto del National health service (Nhs): vengono aboliti i Primary care trusts (equivalenti alle nostre Asl), sostituiti da consorzi di General Practitioners (GPs, i medici di famiglia), denominati Clinical Commissioning Groups (CCGs), il vero perno del sistema. Saranno complessivamente 211 in tutta l’Inghilterra e saranno i destinatari di 65 miliardi di sterline di fondi pubblici (quasi il 70% dei 95 miliardi di sterline dell’intero budget sanitario nazionale). Con i fondi assegnati i CCGs finanzieranno le attività dei GPs e i servizi offerti ai loro pazienti da parte dei vari provider: dalle cure domiciliari a quelle specialistiche e ospedaliere. Saranno i GPs a scegliere e a remunerare i provider e ciò ha sollevato la questione del loro potenziale conflitto d’interessi: GPs prescrittori di prestazioni erogate da provider privati, con possibili interessi in comune. “Metà dei GPs nei CCGs hanno legami finanziari con i provider privati”, sostiene il Bmj. Le cose potrebbero ulteriormente complicarsi se, come la legge prevede, i CCGs appaltassero l’attività di committenza ad agenzie private, per le quali gli interessi commerciali nella scelta del provider sarebbero ancora più evidenti. Altro elemento critico è la perdita del livello nazionale di definizione dei Lea, assegnato prima della riforma al ministero della Salute, che stabiliva le prestazioni che le strutture pubbliche erano tenute a garantire uniformemente in tutto il territorio e anche i livelli di partecipazione alla spesa, per alcune limitate categorie di prestazioni. Con la riforma sarà ciascun Ccg a stabilire quali prestazioni garantire ai pazienti e i livelli di partecipazione alla spesa. Ad aggravare la situazione ci sono anche i tagli apportati dal Governo Cameron al budget della Sanità (meno 20 miliardi di sterline entro il 2015) e ad altri settori del welfare. Ha scritto Martin McKee sul BMJ: “La crisi economica ha offerto al Governo un’opportunità unica. Come Naomi Klein ha descritto in molte differenti situazioni, quelli che si oppongono al Welfare State non sprecano mai una buona crisi”.

 Da “Il Sole 24ore Sanità” n. 8, del 5-11 marzo 2013
Le linee guida delle Regioni. Come si nominano i primari.
Cambiano le nomine dei primari, secondo le prescrizioni della legge 189/2012 (legge Balduzzi) e secondo le linee di indirizzo che le Regioni hanno messo a punto per il “Conferimento degli incarichi di direzione di struttura complessa per la dirigenza medico-sanitaria nelle aziende del Servizio sanitario nazionale”. Accanto alle linee di indirizzo c’è anche la richiesta al ministero della Salute di costituire presso lo stesso dicastero, “ai fini del sorteggio per la composizione della Commissione esaminatrice”, l’albo nazionale unico per garantire “correttezza, trasparenza ed economicità dell’azione amministrativa”. La procedura di nomina dei direttori di struttura complessa si articola in sei fasi: 1) definizione del fabbisogno sotto il profilo oggettivo e soggettivo; 2) avvio della procedura con la pubblicazione di avviso; 3) nomina della commissione di valutazione; 4) valutazione dei candidati; 5) scelta da parte del direttore generale e conferimento dell’incarico; 6) sottoscrizione del contratto individuale. Il tutto dovrà avere la massima pubblicità sul bollettino ufficiale della Regione, per estratto sulla Gazzetta Ufficiale e sul sito aziendale. Deve essere garantita la pubblicità alla data di effettuazione delle operazioni di sorteggio per la nomina della Commissione, alla nomina stessa, al verbale delle operazioni condotte dalla Commissione e, prima della scelta del candidato, alla pubblicazione del profilo professionale del dirigente da incaricare sulla struttura organizzativa, ai curricula dei candidati che hanno partecipato alla procedura, alla relazione della Commissione di valutazione. Deve inoltre essere pubblicato l’atto di attribuzione dell’incarico di direzione. La commissione è composta dal direttore sanitario dell’azienda interessata e da tre direttori di struttura complessa nella medesima disciplina dell’incarico da conferire, individuati tramite sorteggio da un elenco nazionale nominativo costituito dall’insieme degli elenchi regionali dei Direttori di struttura complessa appartenenti ai ruoli regionali del Ssn. Criteri di valutazione: in linea di massima sono divisi tra curriculum e colloquio. Eventuali altre macroaree potranno essere definite dalle Regioni per esigenze di valutazione in ambiti specifici. A ciascuna macro-area dovrà essere assegnato un punteggio. Nell’avviso pubblico dovranno essere indicati le macroaree, le scale di misurazione e i relativi punteggi.

 Da “Il Sole 24ore Sanità” n. 9, del 12-18 marzo 2013
Rapporto Agenas. Cure palliative al test di qualità.
Il 39% delle Unità di cure palliative domiciliari (Ucp) non opera con medici dedicati e specializzati o con almeno esperienza triennale, non redige un Piano assistenziale individualizzato, non è un’articolazione organizzativa definita, non opera con infermieri dedicati, non rispetta quindi alcuni tra i più importanti requisiti stabiliti dall’Intesa Stato-Regioni del 25 luglio 2012, attuativa della legge 38/2010. Solo il 19% può essere classificato di buon livello mentre il 42% soddisfa almeno i criteri minimi. È questa la “stratificazione” delle Ucp che emerge dal Report di Agenas “Accanto al malato oncologico e alla sua famiglia: sviluppare cure domiciliari di buona qualità”, un’indagine svolta su base volontaria, cui hanno aderito 177 unità di offerta di cure palliative domiciliari (di queste 132 sono con équipe dedicate), 143 realtà che forniscono supporto alla famiglia e al caregiver, 90 Uo di Oncologia, Ematologia o Onco-Ematologia che si occupano di continuità delle cure nell’ambito delle cure palliative e 8 Ucp pediatriche. Nelle Unità d’offerta di cure palliative domiciliari, il livello di adesione ai requisiti individuati dalla ricerca è superiore nelle Ucp private rispetto a quelle pubbliche. Due terzi (67%) appartengono all’ambito pubblico (47% sono centro di Asl in cui operano équipe dedicate interne e 20% centro ospedaliero/Hospice pubblico), mentre il 26% si sono qualificate come centri erogatori accreditati non profit. Delle Ucp pubbliche solo il 55% garantisce almeno i criteri minimi a fronte del 72% delle Ucp private. Nel complesso, i risultati del monitoraggio fanno sì che solo 55 Ucp sono state giudicate “eligibili” per l’Osservatorio sulle best practice.

 Da “Il Sole 24ore Sanità” n. 10, del 19-25 marzo 2013
Sicurezza sul lavoro. Bilancio delle attività di prevenzione nel triennio 2009-2011.
Quasi 500mila aziende ispezionate in tutti i comparti produttivi, 646.450 sopralluoghi effettuati, 166mila violazioni riscontrate, 52.568 indagini di polizia giudiziaria per infortuni sul lavoro, di cui 17mila con violazioni delle normative in materia e quasi 176 milioni di sanzioni comminate. Sono i numeri dell’attività di prevenzione nei luoghi di lavoro, contenuti in un rapporto della Conferenza delle Regioni che documenta nel triennio 2009-2011 una diminuzione del 35% del numero di infortuni sul lavoro registrati a livello nazionale e un calo del 61% di incidenti mortali. Un risultato positivo, che rappresenta però soltanto un punto d’avvio dopo una lunga trascuratezza anche da parte delle amministrazioni pubbliche. Nonostante i risultati positivi (la piena copertura dei Livelli essenziali di assistenza è stata raggiunta e superata dal 2009, con il controllo del 6,6% delle unità locali con dipendenti o equiparati, superando il livello indicato dai Lea del 5%), i problemi non mancano. Innanzitutto c’è la necessità di sviluppare il controllo dell’illegalità, in particolare per quanto riguarda la regolarità dei rapporti di lavoro, ma anche la semplificazione delle norme, senza ridurre i livelli di tutela, per adeguarle anche alle necessità delle piccole e microimprese. È indispensabile uno sviluppo omogeneo del Sistema informativo nazionale della prevenzione (Sinp) e di quello di controllo delle malattie professionali. Il 2011 è stato il primo anno di vera e propria attuazione dei progetti di prevenzione redatti dalle Regioni sulla base delle indicazioni del Piano nazionale di prevenzione 2010-2012. Per ora 64 piani (93%) sono stati avviati, mentre solo 5 sono stati rinviati, totalmente o parzialmente, al 2012. Il rapporto analizza poi nel dettaglio due dei settori maggiormente a rischio sulla sicurezza del lavoro: edilizia e agricoltura. Per quanto riguarda il piano nazionale di prevenzione in edilizia, si è raggiunta una programmazione uniforme in tutte le Regioni, con formazione diffusa degli operatori delle Asl, lotta al lavoro nero, sviluppo di modelli innovativi di controllo nei cantieri e definizione di un piano di valutazione completo di indicatori e standard. Ma i problemi non mancano: le prime relazioni di attività hanno censito un 61% di lavoratori e un 78% di imprese edili irregolari, con una media di 2 lavoratori irregolari per ogni azienda; le cadute dall’alto, legate nella quasi totalità dei casi al mancato rispetto delle norme di sicurezza nei cantieri, restano la prima causa anche di infortunio mortale. Per quanto riguarda il settore dell’agricoltura, gli obiettivi nazionali prevedono anagrafi aggiornate delle aziende agricole in tutte le Asl e l’attivazione di programmi per la riduzione dei rischi più gravi (trattori e altri macchinari). La svolta, lascia capire il rapporto, ci sarà solo realizzando un maggior coordinamento tra le Regioni e gli enti competenti dello Stato che ancora mancano all’appello.

 Da “Il Sole 24ore Sanità” n. 11, del 26 marzo – 1 aprile 2013
Sdo 2011. Ospedali, ricoveri in caduta.
Sempre meno ricoveri e giornate di degenza nel 2011: oltre 537mila in meno i primi (-4,5%) e 2,4 milioni in meno le seconde (-3,5%) rispetto al 2010, il più forte calo mai registrato in un anno dal 2001 ad oggi; migliora l’appropriatezza: rispetto al 2010 i ricoveri ad alto rischio di in appropriatezza in regime ordinario sono diminuiti di circa 185.000 unità (-10%) e quelli in day hospital di circa 80.000 unità (-7%). Sono i dati del rapporto annuale sull’attività di ricovero ospedaliero relativi alle Schede di dimissione ospedaliera (Sdo) del 2011, diffusi dal Ministero della Salute. Anche il tasso di ospedalizzazione per acuti in regime ordinario nel 2011 si riduce e passa dalle 116 dimissioni per 1.000 abitanti del 2010 a poco meno di 110 per 1.000 abitanti nel 2011, sempre però con “una discreta variabilità regionale”; il decremento vale per tutte le fasce di età ed è minore al Sud rispetto al valore nazionale. Rimane costante la degenza media, che ormai dal 2001 oscilla tra 6,7 e 6,8 giornate (anche nel 2011) per gli acuti in regime ordinario (la maggior parte dei ricoveri), intorno ai 26-27 giorni in riabilitazione e ai 30-31 giorni per la lungodegenza. Dal 2009 ci sono 91 strutture in meno (di cui la maggior parte nel pubblico e soprattutto nelle Regioni del Sud con piano di rientro, Sicilia in testa) e scende il “valore economico” dei ricoveri: in un anno -2,33% nel pubblico e -0,34% nel privato accreditato. Ma non tutte le Regioni hanno “risparmiato”, nelle Regioni a statuto speciale e nelle Province autonome, Friuli V. G. a parte, negli ospedali pubblici la spesa aumenta dal minimo dell’1,17% in Valle d’Aosta al massimo dell’8,64% a Trento. In queste Regioni (tranne la Valle d’Aosta che non ha privato accreditato, Bolzano e la Sardegna) aumenta anche la spesa privata, che tuttavia sale in altre sei Regioni: Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche e Abruzzo, soprattutto per effetto della riduzione della spesa nel servizio pubblico che ha spostato l’asticella dell’assistenza verso le strutture accreditate. La principale causa di ricovero in regime ordinario è rappresentata anche per il 2011 dal parto con 316.814 dimissioni. Escludendo il parto, le principali cause di ospedalizzazione sono legate alle patologie cardiovascolari (soprattutto il Drg “Insufficienza cardiaca e shock”) e respiratorie (in particolare il Drg “Edema polmonare e insufficienza respiratoria”), poi agli interventi chirurgici per sostituzione di articolazioni maggiori o reimpianto degli arti inferiori. Il day hospital invece è al primo posto per la somministrazione di chemioterapia (“Chemioterapia non associata a diagnosi secondaria di leucemia acuta”) con 1.917.024 accessi, il 24% del totale di tutti gli accessi in day hospital.

 Da “Il Sole 24ore Sanità” n. 12, del 2–8 aprile 2013
Aziende ospedaliere. L’eccellenza non abita al Sud.
Rappresentano l’eccellenza delle cure in ospedale, ma non per questo le loro prestazioni sono sempre al top della qualità. Sono le 114 aziende ospedaliere e ospedaliero-universitarie italiane, di cui solo il 32% ottiene nei sette indicatori di esito considerati più collaudati e attendibili, un risultato migliore della media nazionale calcolata sulle oltre 1.400 strutture di ricovero pubbliche e private accreditate. E praticamente nessuna raggiunge il risultato benchmark ideale calcolato in base al mix risultati-rischi. In questo quadro, le aziende che ottengono i risultati complessivamente e mediamente migliori sono praticamente tutte al Centro-Nord, lasciando alle Ao del Sud l’eccellenza solo in qualche singolo e isolato esito. Sono questi, in sintesi, i risultati di un confronto che Il Sole-24 Ore Sanità ha condotto su sette esiti del Programma nazionale 2012. Le Regioni, le cui aziende compaiono tra le prime 40 in classifica sono quelle considerate da sempre virtuose (spesa a parte): Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana e Umbria. Unica eccezione rilevante al Sud è la Basilicata, la cui unica azienda ospedaliera si piazza al 12° posto nella classifica. Se si considerano tre indicatori di mortalità a 30 giorni, tutti relativi a interventi cardiologici, ad essere sempre sopra la media nazionale sono quasi tutte le aziende del Centro-Nord, mentre al Sud le eccezioni sono relative a singole aziende. Se si considerano gli esiti di appropriatezza (colecistectomie laparoscopiche e fratture di femore operate entro 48 ore), i valori superiori alla media nazionale di appropriatezza sono praticamente tutti al Centro-Nord e nessuna azienda raggiunge il valore benchmark “ideale” (97,26%), tranne un’unica eccezione: gli ospedali riuniti di Reggio Calabria (98,11%). Un caso a parte è il taglio cesareo primario. Nessun ospedale a livello nazionale si avvicina alla percentuale “accettata” come benchmark: la media nazionale è del 27,42% sul totale dei parti e quella benchmark sarebbe di poco meno del 4%. Anche in questo caso comunque sono soprattutto le aziende del Nord a ottenere valori al di sotto della media nazionale, mentre il cesareo è la “bestia nera” del Sud dove nelle Ao raggiunge anche il 64%.

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