il Manifesto, 1 aprile 2011

I caporali di Milano

Immigrati sfruttati e pagati in nero. Tappa lombarda della carovana antimafia

MILANO - Il caporalato non ha nazione. Sfruttamento e dissoluzione (dei diritti), perché a subire i soprusi di caporali e caporaletti vari, sono lavoratori di ogni origine e razza. A tentare di stanarli, o perlomeno di rendere più coscienti i lavoratori, ci hanno provato Cgil, Cisl e Uil (insieme all'Arci e ad altre associazioni), che ieri hanno accompagnato la carovana antimafia. Primo appuntamento in Lombardia per un tour europeo.

Un approccio «faccia a faccia» sul territorio, per dire che «c'è sempre una linea sottile tra il tacere e il subire». Ma contrastare il fenomeno, senza l'aiuto consapevole di chi ne è vittima, non è facile. E, anche nella ex-ricca Lombardia, non sono pochi. «I numeri del lavoro nero sono consistenti, nonostante la crisi che sta investendo il settore - dice Franco De Alessandri, segretario generale della Fillea-Cgil di Milano - siamo ancora intorno al 40% di lavoro nero, e all'interno di questo c'è una fascia piuttosto estesa, difficilmente quantificabile perché fluttuante, di caporalato e mercato delle braccia».

Ieri, cinque del mattino. Piazzale Lotto, a Milano, è deserto. Le migliaia di automobili che ingorgheranno quella piazza solo poche ore dopo sono ancora tutte addormentate nei garage e nei parcheggi. Intorno, non si vede nessuno, nemmeno un pedone. Qualche decina di metri più in là, davanti al consolato romeno, dieci, dodici immigrati aspettano qualcosa, o qualcuno. Scocciati del movimento dei militanti antimafia, che srotolano a poca distanza il loro striscione di protesta contro la criminalità organizzata, si defilano velocemente quando tentiamo di avvicinarli, volantini anti-caporalato alla mano. Per loro, una cosa del genere è solo un impiccio. «Per colpa di questi italiani - probabilmente pensano - abbiamo perso una giornata di lavoro». Sulla strada vicina, un paio di furgoncini bianchi rallentano, si accostano al marciapiede. Poi, dopo aver lanciato uno sguardo minaccioso verso la strana combriccola sindacal-antimafiosa, accelerano e sgommano via velocemente. Persa una «fermata», contano di recuperare alla successiva. Fanno così ogni mattina, prima che faccia giorno. Fanno il giro delle piazze di Milano dove, tramite sms, hanno dato appuntamento ai loro «dipendenti». Anche se, viste le condizioni di sfruttamento cui li sottopongono, sarebbe più corretto chiamarli «merce». Da immettere sul mercato (nero) del lavoro.

Seconda tappa: piazzale Maciachini, snodo strategico per la viabilità milanese. Di fronte a un bar, qualche decina di stranieri soggiorna impaziente. Con un pizzico di fortuna in più, si riesce ad avvicinarli. Sono nordafricani. Qualcuno orientale. Anche se con malavoglia, prendono il volantino. Lo leggono. E, a domanda, rispondono. Come Amid (per usare un nome di fantasia) che dice: «Inizio a lavorare alle sette del mattino, fino alle cinque, sei del pomeriggio». Sono in quattro o cinque. Dal 2003, ogni mattina, la stessa storia: aspettano che passino i caporali. Quando arrivano, fanno selezione: tu sì, tu no. E via, verso i cantieri della provincia di Milano, a spaccarsi la schiena per otto-dieci ore al giorno. A quattro-cinque euro all'ora. I più fortunati, sei o sette. Il cibo glielo danno i caporali, a pagamento. Per il viaggio, fanno colletta per pagare la «tassa» richiesta. Moustapha (nome di fantasia) ha 21 anni. Da sei fa questa vita. In questi giorni lavora a Saronno, ma il suo «capo», dice, «mi manda un po' qua un po' là, dove serve». Dalla porta del bar, un uomo sulla cinquantina, giaccone arancione, guarda torvo i sindacalisti che parlano con gli stranieri. Un caporale, probabilmente. Quando ci si avvicina, se ne va, bofonchiando qualcosa in una lingua straniera.
Ultima tappa, la fiera di Rho-Pero. Dove, in attesa del grande evento dell'Expo, una fiera si sussegue all'altra. A montare e smontare stand e strutture, la maggioranza dei lavoratori e straniera. E in nero. A parlar loro di busta paga si mettono a ridere, di contratto, neanche l'ombra. «Nessun italiano ti prende in regola», dice Juan. E rivolgersi a un sindacato, per far valere i propri diritti? «No, no, va bene così», risponde spaventato. Perché «io non faccio tante domande, quando c'è da lavorare si lavora, come viene». E il caporalato, ne approfitta

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