Comunicato stampa del 4 gennaio 2008. 194 in lombardia: lettera aperta di susanna camusso e lella brambilla ai consiglieri regionali.

fonte: Dalla Cgil Lombardia

Il dibattito che si è aperto nel Paese sulla Legge 194 è, ancora una volta, partito male. Il parallelo tra quella legge e la pena di morte è tanto più inaccettabile in quanto mette sullo stesso piano il “boia” e una donna che deve invece poter decidere della propria salute e della propria esistenza, di fronte ad una vita che ancora non c’è. Nel più grande rispetto della coscienza e delle convinzioni di ognuno, ciò che non è comprensibile è l’idea che lo Stato si sostituisca imponendo una morale - si potrebbe dire un’ideologia - ai singoli cittadini. La laicità e l’autonomia dello Stato sono ovviamente impegni prioritari di qualunque istituzione, ma quanto si apprende dai giornali sul fatto che la Regione si appresterebbe a varare una normativa sull’applicazione della 194 nelle aziende ospedaliere, contrasta con questi principi. Viene infatti indicata l’estensione di norme già praticate in due importanti ospedali milanesi, che limitano l’applicazione della 194. Si tratta di norme che attengono a differenti problematiche: a) La prima porta il tempo massimo entro cui si può riconoscere la possibilità di praticare l’aborto terapeutico tra la ventunesima e la ventiduesima settimana, recependo l’indicazione di una parte della comunità medico scientifica che sostiene che alla ventiquattresima settimana ci sarebbero alte possibilità di sopravvivenza del feto. b) La seconda prevede una modifica della composizione attuale dell’equipe che si confronta con la donna, inserendo figure con il fine dichiarato – per noi insopportabile – di “aiutare” a decidere (meglio sarebbe dire a condizionare) la donna. Mentre sul primo punto è possibile arrivare ad una sintesi delle valutazioni scientifiche che porti a cambiamenti positivi, la seconda parte invece sancisce un giudizio morale contro l’autodeterminazione delle donne e tende a contrastarla. Questo è reso ancor più esplicito dal fatto che nulla si dice rispetto all’obiezione di coscienza, e quindi alla tempistica delle IVG già autorizzate, che spesso sono ritardate dall’alta impossibilità di accedere concretamente alle strutture pubbliche nel territorio. Ancora, se si vuole davvero ragionare di maternità libera e consapevole, e di funzione pubblica della sanità, il tema è l’esistenza dei consultori, la loro qualificazione in primis attraverso le risorse ed il personale. Le scelte politiche della Regione, segnate da una forte componente ideologica, hanno dirottato risorse ai privati i quali, non essendo i consultori un servizio remunerativo, non hanno garantito il loro sviluppo e la loro estensione. Il risultato di tali politiche è che il numero dei consultori sul territorio regionale, che prima era di 288, è sceso a 207, portando la nostra regione tra le ultime a livello nazionale, ben al di sotto dei parametri indicati dalla legge del 1998 di un consultorio ogni 20mila abitanti. Un contributo originale ed utile da parte della Regione Lombardia sarebbe quello di affrontare il tema rispondendo positivamente alle donne, rilanciando i consultori, la destinazione di risorse e personale, la mediazione culturale, perché i consultori sono il luogo che attraverso la conoscenza e la cultura della prevenzione e della contraccezione, può davvero rendere l’aborto l’ultima e residuale ratio di fronte ai problemi che ogni singola donna deve affrontare.

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