CGIL LOMBARDIA - CISL LOMBARDIA - ACLI LOMBARDIA - ARCI LOMBARDIA

50MILA ALLA “MARCIA PER IL LAVORO” OGGI A MILANO. GRANDE SODDISFAZIONE DEGLI ORGANIZZATORI AL TERMINE INCONTRO CON IL PRESIDENTE DELLA REGIONE ROBERTO FORMIGONI.
 

Sesto San Giovanni, 24 ottobre 2009.

Quasi 50mila lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati hanno partecipato oggi a Milano alla “Marcia per il lavoro” organizzata da Cgil, Cisl, Acli e Arci lombarde, sulla parola d’ordine “Insieme per battere la crisi. Proposte per l’occupazione e il welfare in Lombardia”.

La marcia si è conclusa in Piazza Castello, ed è stata aperta dagli striscioni delle numerose aziende in crisi, snodandosi lungo le vie centrali della città. All’iniziativa hanno dato la loro adesione sindaci e amministratori locali, uomini e donne della cultura e dello spettacolo, numerose associazioni. Sul palco le testimonianze di delegati di fabbrica che hanno raccontato i problemi concreti che devono affrontare ogni giorno sul luogo di lavoro. Ai loro interventi si sono alternati commenti e letture di Moni Ovadia, Silvano Piccardi e Silvia Soncini.

Gli organizzatori hanno sottolineato come sia il momento di intensificare il confronto con le istituzioni e le parti sociali per ottenere ulteriori risposte concrete a tutela di lavoratori e pensionati:

A conclusione della manifestazione i due Segretari generali di Cgil e Cisl lombarde Nino Baseotto e Gigi Petteni si sono incontrati con il Presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, al quale hanno ricordato i tre punti prioritari per le organizzazioni Sindacali:

1) Garanzia della copertura degli ammortizzatori sociali per tutto il 2010;

2) tempi rapidi per l’accordo sulla non autosufficienza, per sostenere famiglie e pensionati,

3) l’apertura di un tavolo di confronto sulle politiche industriali, l’innovazione, le infrastrutture e lo sviluppo.

Il Presidente Formigoni ha assicurato l’impegno della Regioni su questi temi.

 

appello "DIARI DELLA CRISI"

Spesso ho la sensazione che tutto quello che mi circonda sia in prestito, la mia vita come il mio lavoro, i miei affetti, le mie scelte.
Abito ancora a casa dei miei: a quasi trent’anni è frustrante, dipendere dagli altri è un debito di affetto che ti fa sentire ogni giorno più povero. Io mi sento così. Povera non solo di soldi, ma di possibilità. Il lavoro che faccio non è sgradevole, poteva andarmi peggio: cuffietta, microfono e via, a turni di 10 ore dentro un call center…a me è andata meglio. Ma il problema è la famosa pre-ca-rie-tà. Contratto a progetto, il più classico dei classici, una situazione da volantino del sindacato: nessuna garanzia, rinnovato ogni sei mesi, il tempo indeterminato diventa un sogno irraggiungibile, così come tante altre cose: una famiglia, una casa, un figlio… precari in tutto, anche negli affetti.
Le parole mi piacciono tanto, ho fatto il liceo, la prima della mia famiglia, il vanto di mamma… allora vado a cercare “precarietà”: viene da prex, latino, significa preghiera. Il dizionario mi prende quasi in giro: “Precario. Ciò che si esercita con permissione, per tolleranza altrui; quindi che non dura sempre, ma quanto vuole il concedente”. Per quanto vorrà ancora il mio “concedente”? Tra quanto mi sostituirà con qualcuno di più giovane e che magari gli costa molto meno?

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Costare meno. Anzi, non costare più nulla. Io ora costo allo stato, cassa integrazione, almeno per qualche mese… poi la fabbrica chiude, si sa già, e tutti a casa. Abbiamo sentito dalla tv di quelli che si sono arrampicati sulla gru, quegli altri sul tetto, lo volevamo fare anche noi… poi c’è mancato il coraggio, o forse siamo solo più rassegnati.
Me lo diceva sempre mio papà: studia, usala la testa e non solo i piedi! E io non l’ascoltavo mai, sempre a giocare al pallone e poi al bar con gli amici o in garage a rattoppare il motorino. Ma alla fine, se avessi studiato davvero, sarebbe andata meglio? Anche per l’ingegnere della fabbrica è bastato un attimo… buttato fuori da un mese all’altro, addio alla bella macchina e a tutto il resto.
É la crisi e non ci si può fare nulla. Dicono. Ma intanto c’è chi ci guadagna eccome, altro che crisi… chi arriva, compra e poi chiude e rivende, ogni macchinario a peso d’oro. Ma noi non siamo macchinari, siamo persone, e a forza di lavorare, di logorarci, anno dopo anno, non valiamo di più, valiamo sempre di meno. Anzi, non valiamo quasi più niente. Ma a 50 anni, dopo averne trascorsi 30 in questa fabbrica, è giusto che liberarsi di noi sia così facile?

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É stato così semplice, cinque anni di lavoro risolti in cinque minuti. Grazie, ma non puoi lavorare più per noi, non possiamo regolarizzarti, sai, troppe tasse, non ce lo possiamo permettere…
E così io mi ritrovo clandestina. É triste passare tanto tempo con una persona, assisterla, starle vicino tutti i giorni e tutto insieme sentirti dire che non c’è più bisogno di te. Non è solo perdere il lavoro. Io mi ero affezionata, e tanto, alla mia “nonna”, una signora così gentile e dolce che assisterla quasi non mi sembrava una fatica. Giorni e giorni passati insieme, con le sue piccole abitudini che sono diventate anche mie. Quando ci siamo conosciute quasi non parlavo l’italiano, ma piano piano abbiamo imparato a capirci: oggi mi sembra di aver perso di nuovo un pezzo della mia vita, una seconda famiglia, e non solo un lavoro.

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Lavorare mi piaceva. Il lavoro nobilita l’uomo, no? E la pensione debilita, pensavo io. Avevo paura della noia, dei giorni vuoti, di invecchiare tutto insieme, di non sentirmi più utile.
E invece mi sento indispensabile. Tutti giorni a prendere i nipoti. Portali qua, riportali là, li aiuto anche a fare i compiti, per quello che posso. Come farebbe mia figlia senza di noi? Capita che mia moglie, quando fa la spesa, compri due bistecche in più per loro, perché tanto a noi i soldi della pensione bastano, e loro invece non ce la fanno ad arrivare a fine mese…
Però mi viene da pensare: ma è giusto un mondo fatto così, tutto all’incontrario? Un mondo in cui chi non lavora più tiene sulle spalle quelli che lavorano? E loro, i nostri figli, senza certezze, senza risparmi, come faranno a fare lo stesso con i loro figli e nipoti?
Il mondo andrebbe rimesso a testa in su. Noi ce lo abbiamo solo in prestito: il futuro è tutto loro. Abbiamo il dovere di dargliene uno migliore.

La crisi c’è, e si sente, ormai da mesi. E a farne le spese è tutto il mondo del lavoro, nessuna categoria esclusa: operai, precari più o meno giovani, professionisti, lavoratori stranieri.
La parola “crisi” viene dal greco antico e in quella lingua significava giudizio e decisione. Insomma, non aveva il valore negativo che le ha dato la lingua italiana.
E allora proviamo a trovare qualcosa di positivo anche in questa nostra crisi: la possibilità del cambiamento. Prendiamo le difficoltà, la paura, l’incertezza, e trasformiamole in risorse, idee, fiducia. Sentiamoci di nuovo collettività, recuperiamo la solidarietà e l’impegno: decidiamo di esserci, per noi e per gli altri. Decidiamo di esserci, di fare sindacato insieme.
Se le certezze crollano sono le istituzioni e tutta la società insieme a dover puntellare, ristrutturare, rendere di nuovo agibile e sicura la speranza del futuro. Per farlo il Governo e tutte le istituzioni locali devono mettere in campo azioni concrete, reali, idee che si trasformino davvero in fatti.
Chi perde il lavoro, chi viene espulso, licenziato o messo in mobilità, deve avere la tutela ed il sostegno delle istituzioni.. Non si tratta solo di un aiuto economico per sostenere l’emergenza del momento, anche se gli ammortizzatori sono strumenti da rafforzare e da estendere a tutti coloro che sono stati colpiti da questa crisi. Un lavoratore che all’inizio o a metà della sua carriera si trova a perdere il suo impiego deve anche essere aiutato ad ottenerne uno nuovo; dev’essere formato, come si dice nel linguaggio tecnico, dev’essere “riqualificato” e poi reimpiegato. E, dov’è possibile, non deve perderlo: le aziende in crisi vanno aiutate a restare aperte, il lavoro dev’essere distribuito in modo da darne il più possibile a più persone possibili. E per ripartire servono nuove politiche di investimento e ricerca, infrastrutture più moderne e il coraggio di esplorare i nuovi settori per proporre un nuovo sviluppo.

E ancora: tutti dobbiamo impegnarci, e chiedere a voce alta, altissima, che non manchino gli aiuti a coloro che sono stati più duramente colpiti dalla crisi; perché la nostra, da sempre, è una società altruista, aperta verso chi ha più bisogno. Per quelle famiglie che non riescono a pagare l’affitto o un mutuo, per tutti coloro che hanno bisogno di assistenza sanitaria, per gli anziani non autosufficienti a cui la pensione non può bastare: più servizi, più protezione sociale, più certezza di non essere abbandonati nel momento più difficile.
Usiamo la crisi. Usiamola come uno strumento per scardinare vecchi privilegi ed affermare nuovi diritti. Usiamola per chiedere più tutele e per affermare ancora una volta la priorità più grande: il diritto di ognuno di noi ad avere un lavoro libero, onesto, sicuro. Usiamola tutti insieme, non facciamoci più usare.
 

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