C'È UNO STATO ISLAMICO CHE HA GIÀ VINTO: L'ARABIA SAUDITA
di Kamel Daoud (Traduzione Ettore C. Iannelli)
la Repubblica, 30 novembre 2015
L'Occidente non può combattere Daesh e nello stesso tempo stringere la mano a Riad. Il jihadismo cresce grazie alla propaganda voluta dai regnanti wahabiti.
Daesh nero, Daesh bianco. Il primo taglia le gole, uccide, lapida, taglia le mani, distrugge il patrimonio dell'umanità e disprezza l'archeologia, le donne e i non musulmani. Il secondo è vestito meglio ma fa le stesse cose. Lo Stato Islamico; l'Arabia Saudita. Nella sua lotta al terrorismo, l'Occidente fa la guerra con una mano e stringe le mani con l'altra. Questo è un meccanismo di negazione, che ha un prezzo: conservare la famosa alleanza strategica con l'Arabia Saudita rischiando di dimenticare che anche il Regno degli Emirati poggia su un'alleanza con il clero che produce, legittima, diffonde, predica e difende il wahabismo, la forma ultra-puritana dell'Islam a cui Daesh si ispira.
Il wahabismo, un radicalismo messianico nato nel Diciottesimo secolo, spera di ristabilire un fantomatico califfato basato sul deserto, un libro sacro e due luoghi santi, Mecca e Medina. Nato nel massacro e nel sangue, si caratterizza per un rapporto surreale con la donna, la preclusione dei territori sacri ai non musulmani e leggi religiose spietate. Ciò si traduce nell'odio ossessivo contro l'immagine e la rappresentazione, quindi l'arte, ma anche il corpo, la nudità e la libertà. L'Arabia Saudita è un Daesh riuscito. Colpisce come l'Occidente lo neghi: saluta la teocrazia come suo alleato, ma fa finta di non notare che è il principale sponsor ideologico della cultura islamica. Le generazioni estremiste più giovani del cosiddetto mondo arabo non erano nate come jihadiste. Erano incubate nella Fatwa Valley, una sorta di Vaticano islamico con un'industria immensa che produce teologi, leggi religiose, libri, politiche editoriali e campagne media aggressive.
Si potrebbe ribattere: l'Arabia Saudita stessa non è un possibile bersaglio di Daesh? Sì, focalizzarsi su questo significherebbe trascurare la forza dei legami tra la famiglia regnante e il clero da cui dipende la sua stabilità - e anche, sempre di più, la sua precarietà. I reali sauditi sono costretti in una trappola perfetta: indeboliti dalle leggi di successione che incoraggiano il ricambio, si aggrappano a legami ancestrali tra il re e i predicatori. Il clero saudita produce l'islamismo che minaccia il Paese legittimando al contempo il regime. Bisogna vivere nel mondo arabo per capire l'immenso potere dei canali televisivi religiosi di trasformare la società raggiungendo i suoi anelli più vulnerabili: famiglie,
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