PROFUGHI 11,5 MILIONI, 13 ANNI MENO DI VITA
mercoledì 18/02/2015
da Vita
-di Anna Pascale*
DUE MILIONI IN LIBANO E GIORDANIA. 1,5 IN TURCHIA. E POI BEN 7,6 MILIONI DI PROFUGHI INTERNI. E 70MILA CHE HANNO TROVATO L'EUROPA: È LA SIRIA
La prassi degli ultimi 25 anni, ci aveva abituato a guerre civili più brevi e anche meno violente, spesso chiuse non dalla vittoria di una delle parti in campo ma dalla firma di un negoziato. Dal 1989 a oggi, la percentuale di conflitti civili conclusisi conla vittoria di uno dei contendenti è passata dal 58 al 13 per cento; dato controbilanciato dalla triplicazione dei negoziati. Prima del 1991, inoltre, la durata media di una guerra civile era di circa 4,6 anni, mentre oggi è di 3,7 (fonte: Peace Research Institute).
Ma quella attualmente in corso in Siria rivela pochi dei connotati di una guerra civile post-anni Ottanta.
Quattro anni di violenze e combattimenti, uno dei maggiori esodi degli ultimi 20 anni - con ritmi di fuga, nel 2013, paragonabili solamente a quelli avutisi col genocidio in Ruanda del 1994 -, e un nuovo record. Secondo il rapporto MidYear Trends 2014 dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), i siriani sono diventati la più grande comunità di rifugiati al mondo (non di lunga data) assistita dall'Agenzia, superando gli afghani, titolari di tale posizione per più di trent'anni. Un dramma cui si assiste entro e oltre i confini siriani, e che ha condotto l'intera comunità internazionale dinanzi a un banco di prova sul quale vengono testati generosità e coerenza, fedeltà agli impegni assunti e lealtà ai principi di diritto internazionale ratificati.
I 3,8 milioni di siriani che hanno lasciato il loro Paese in questi anni sono tuttora stanziati per la gran parte in Turchia, Libano e Giordania. Fuori dalla regione limitrofa, sono stati globalmente offerti soltanto 63.170 luoghi di reinsediamento che hanno permesso di ospitare solo l'1,
7% dei profughi (fonte: Unhcr). I ricchi e vicini Paesi del Golfo, quali Qatar, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Kuwait e Bahrein, si sono rifiutati di offrire spazi di accoglienza e, altrove, Paesi sviluppati o in forte crescita economica, come Russia e Cina, non si sono dimostrati più ospitali.
Paralizzata dalle paure agitate sull'aumento dei livelli di immigrazione, anche la comunità europea ha preferito osservare l'emergenza umanitaria in corso da debita distanza, contribuendo alla sua gestione ma badando a non farsene carico. A eccezione di Germania e Svezia che, insieme, negli ultimi tre anni, hanno accolto ben il 64 per cento del numero totale di richieste di asilo pervenute in tutta l'Unione Europea, gli altri 26 Paesi si sono impegnati ad allestire soltanto 5.105 luoghi di reinsediamento, utili ad accogliere appena lo 0,13 per cento dei rifugiati in sovraffollamento nei principali Paesi ospitanti. Ed è anche su questi ultimi che le lacune nella strategia internazionale producono effetti indiretti disastrosi.
Ai disagi provocati dagli ingenti costi di gestione, si aggiungono questioni di sicurezza regionale (ancor più serie dalla nascita del Califfato islamico) e profonde destabilizzazioni nel delicato equilibrio etnico e confessionale interno. La situazione più drammatica a questo riguardo rimane quella degli stati Libano e Giordania, che ospitano rispettivamente 1,2 milioni (circa il 26 per cento della popolazione libanese totale) e 622mila rifugiati, il 30 per cento dei quali vive in condizioni di estrema povertà.
L'assenza di una soluzione politica tale da permettere il rimpatrio, ha quindi costretto i governi vicini a riconoscere la natura a lungo termine della sfida e a revisionare le proprie politiche di accoglienza. Sia Beirut sia Amman hanno avviato misure finalizzate a ostacolare l'attraversamento del confine, a scoraggiare la ricerca di lavoro e a ridurre i servizi. Le autorità libanesi, in particolare, hanno inaugurato la strategia di sicurezza del 2015 introducendo l'obbligo di un visto ad hoc per i siriani che cercano di attraversare la frontiera; un provvedimento,
senza precedenti nella turbolenta storia post-coloniale dei due Paesi, che rievoca antiche tensioni e ne produce di nuove. A tale ondata di restrizioni fa da controcanto la spinta propositiva, ma non disinteressata, di Ankara verso una migliore permanenza dei rifugiati in suolo turco. Affermandosi quale principale alleata dell'Ue nelle operazioni di gestione e controllo dell'immigrazione - soprattutto in virtù del controverso Accordo di riammissione stipulato poco dopo la tragedia di Lampedusa -, la Turchia ha deciso di farsi carico della responsabilità di assistere il milione e mezzo di siriani che sta ospitando, garantendo loro accesso all'istruzione e ai servizi.
Non migliora invece la situazione dei 7,6 milioni di rifugiati interni, la maggior parte dei quali costretta più volte ad abbandonare la propria sistemazione in cerca di riparo dagli attacchi o di sostentamento. Si stima che nel corso del conflitto l'aspettativa di vita in Siria sia diminuita di 13 anni e che tre persone su quattro vivano in stato di povertà. A pagare il prezzo più alto di tale condizione sono i palestinesi: rifugiati plurimi, oggetto di strumentalizzazione da parte delle fazioni in lotta, e di discriminazione perenne nel resto della regione.
La sofferenza del popolo palestinese è solo un'altra delle componenti di questa guerra che rimandano a una lunga tragedia di vecchia data, nella quale non vi è spazio per i negoziati e non c'è tregua per i civili. Non è ancora arrivato il tempo dei resoconti. Continuano piuttosto ad accavallarsi bilanci intermedi (nella migliore delle ipotesi) sul prezzo umano di questa guerra e su un esodo che ha riaperto antichi dissidi e svelato ancora una volta la limitatezza del sistema di solidarietà internazionale.
* ricercatrice freelance