DALLA PARTE DEI ROM
da:http://www.internazionale.it/
15 aprile 2015
Luigi Manconi, sociologo
I nomadi sono quelli che stanno nei campi nomadi. Una sorta di profezia che si autoavvera. Quindi, se è vero che i nomadi sono quelli che stanno nei campi nomadi, risulta trascurabile il motivo della loro presenza lì. Una libera scelta? L’effetto di una discriminazione? L’assenza di alternative?
Eppure, rispondere a queste domande è tanto più ineludibile quanto più i dati ci parlano di una realtà sorprendente: il nomadismo, considerato una sorta di connotato identitario o addirittura genetico (”È nel loro dna”), riguarda ormai solo una piccola, piccolissima, parte di quella popolazione, circa il 3 per cento.
Ma è proprio sulla base di questo presupposto, ormai del tutto superato, che si sono sviluppate, da decenni, le politiche pubbliche verso queste minoranze nel nostro paese: campi, aree di sosta, aree di transito, aree attrezzate sono state finora le diverse declinazioni di un’unica soluzione abitativa ritenuta la sola percorribile.
Una soluzione che ha ottenuto come risultato la segregazione abitativa e, di conseguenza, l’esclusione e l’autoesclusione sociale delle comunità rom. Si è attivata, così, una inesorabile spirale.
Come già ho scritto qui, i campi nomadi sono stati, allo stesso tempo, causa ed effetto della discriminazione: producono, infatti, due processi che si alimentano vicendevolmente.
I rom presenti nei campi tendono inevitabilmente ad autoghettizzarsi dentro quella dimensione circoscritta e coatta di marginalità sociale e autogoverno, dove si riproducono circuiti illegali e relazioni di potere. Per contro, chi abita vicino a quei campi si convince del fatto che rappresentino una costante minaccia e, dunque, oscilla tra volontà di chiuderli in maniera definitiva e tentazione di “spazzarli via” con ogni mezzo.
Non solo: proprio il ricorso allo strumento dei campi è l’esempio più bruciante dell’esistenza di un metodo, sistematico e deliberato, utilizzato nei confronti di una minoranza.
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