PROCESSO DI KHARTOUM, SAPETE COS’È?
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Francesca Materozzi - 24 marzo 2015
Flussi migratori considerati come una materia da trattare in seno alle relazioni internazionali, accordi con dittatori e la costruzione con questi governi di collaborazione in tema di regolamentazione dell’emigrazione, creazione di centri d’accoglienza nei paesi di transito e lotta al traffico di esseri umani. Questo è in sintesi ciò che prospetta il Processo di Khartoum.
Si tratta di un accordo siglato il 28 novembre a Roma, dove si è tenuta una conferenza ministeriale tra i rappresentanti degli Stati membri dell’Unione Europea, dei paesi del Corno d’Africa (Eritrea, Somalia, Etiopia e Gibuti) e di alcuni paesi di transito (Sud Sudan, Sudan, Tunisia, Kenya ed Egitto). In questo incontro è stata sancita la volontà tra i Paesi partecipanti di collaborare per combattere il traffico di esseri umani, intervenire sui fattori scatenanti dell’emigrazione, cercar di garantire dei percorsi più strutturati per chi emigra, tutelando le fasce più vulnerabili e i richiedenti asilo.
Il Processo di Khartoum (che prende il nome dalla capitale del Sudan) vorrebbe arrivare a questi obbiettivi, con accordi che portino a scambi d’informazioni, a sviluppo di capacity building, assistenza tecnica e buone pratiche. Vuole sostenere lo sviluppo sostenibile nei paesi d’origine e di transito, creare strategie comuni di lotta alle reti criminali che gestiscono il traffico di migranti, regolare i flussi migratori e là dov’è possibile prevenirli. Su base volontaria prevede assistenza alla creazione di centri d’accoglienza che forniscano l’accesso al diritto d’asilo. A fondamento dell’intesa, secondo la dichiarazione redatta a fine lavori, il pieno rispetto dei diritti umani, primo fra tutti il diritto d’asilo.
Siamo di fronte ad uno stravolgimento dell’approccio al fenomeno migratorio. E’ la stessa Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri, Federica Mogherini, che recentemente, ha più volte sottolineato come l’immigrazione non possa più essere trattata pensando solo alle frontiere europee ma che ci sia bisogno di una collaborazione con i paesi di transito e di origine.
Parallelamente questo implica che l’Unione Europea abbia deciso di accordarsi e collaborare anche con stati governati da dittature. Proprio qui nascono le perplessità. Non è chiaro infatti cosa s’intenda per sviluppare le capacity building di questi paesi. Le competenze che si intende trasferire possono riguardare sia politiche di repressione che di sviluppo. Si può ipotizzare che portino alla creazioni blocchi di filo spinati in determinate punti chiavi del territorio, alla creazione di nuovi muri, come all’addestramento della polizia di frontiera al contrasto delle migrazione. Altro discorso invece se venissero incrementate e rafforzare le politiche sociali.
Contemporaneamente è evidente che la strada intrapresa porti ad una collaborazione con delle dittature che pone dei seri problemi rispetto all’effettività del rispetto dei diritti umani,
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